
Capita che tuo figlio maschio di nove anni ti tormenti perché vuole giocare a calcio. Capita anche se non te lo sai spiegare: nessuna delle sue figure maschili di riferimento (papà, nonno) ha grande interesse per questo sport. Nemmeno tifiamo una squadra, in famiglia. Il ragazzo in questione – mio figlio Daniele – si è infatuato dell’Inter solo perché la mamma (la mamma!) gli ha raccontato di avere simpatie nerazzurre (tiepide, tiepidissime) per via di un compagno interista a cui lei faceva il filo da ragazzina. Se penso a certe famiglie di fede calcistica decennale e incrollabile mi viene da sorridere…
Dicevo: capita che tuo figlio ti tormenti perché vuole giocare a calcio. I problemi nascono se quel tuo figlio non ha il piede di Pelé. Già, perché nonostante a te non importi nulla che giochi a chissà quali livelli, la selezione è già spietata a partire dal campetto dell’oratorio. Non è bello gettare discredito su nessuno, figuriamoci una parrocchia, ma credo che non dimenticherò mai la telefonata con un dirigente di una società oratoriana milanese, presso cui Daniele aveva giocato dai 6 agli 8 anni, il quale, di fronte alla mia richiesta di reinserirlo in squadra dopo un anno di pausa, “gentilmente” mi disse che forse non era il caso. È vero, durante quei due anni, nonostante si ostinasse a voler giocare, Daniele era più interessato alle margherite sul campo che alla palla, ma che diamine, possiamo ben lasciare margini di maturazione a un bambino di seconda elementare, no? Non è che tra i 6 e gli 8 anni si debba decidere proprio tutto.
Sentenze di questo tipo rischiano di fiaccare anche l’entusiasmo più grande (in un bambino) e la pazienza più tenace (in una mamma). Complice un campus estivo di calcio molto ben organizzato e motivante, però, bambino testardo e mamma pseudo-interista non hanno mollato. Così, con ancora nel cuore i bei ricordi degli allenamenti nello stadio in riva al mare con i mister della Triestina calcio, a settembre di quest’anno ci siamo rimessi alla ricerca della squadra giusta.
L’ODI Turro si è presentato sulla nostra strada grazie a conoscenze personali, quando ormai disperavamo di guadagnare un posticino, anche in panchina, in qualsivoglia realtà sportiva. Non avevo nessuna idea di cosa avremmo trovato, adesso posso dire che non potevamo sperare di meglio. Daniele è stato accolto senza alcuna diffidenza dai compagni della under 10, nonostante la squadra avesse già un nucleo molto ben affiatato. Certo, non è stata subito amicizia da pacche sulla spalla, ma pian piano, grazie anche al consiglio del mister Luis di fermarsi a fare la doccia negli spogliatoi (io trovavo più pratico farla a casa), il ghiaccio si sta sciogliendo.
Sarò profana, di calcio obbiettivamente capisco poco, ma credo che un buon allenatore si veda anche da queste attenzioni nel costruire lo spirito di squadra. Spirito che poi si tocca con mano tra i ragazzi: non mi è mai capitato di sentirne uno prendere a male parole un compagno che aveva sbagliato. E anche tra genitori. Devo dire che, visto le leggende che circolano sul tifo dei genitori, temevo di trovarmi ad assistere a zuffe a bordo campo o, nella migliore delle ipotesi, di dover sostenere occhiatacce in caso di errori di mio figlio, eventualità peraltro piuttosto probabile.
Invece – sorpresa – scopro un gruppo accogliente anche nei confronti di chi non solo è nuovo, ma non appartiene nemmeno alla parrocchia. Che ci devo fare, sarò un cuore tenero, ma sentire altre mamme e papà che incitano Daniele quando prende palla mi fa quasi un po’ commuovere.
Non vi posso dire, quindi, come mi sono sentita quando, un mese fa, mio figlio ha segnato il suo primo gol in partita. Due gol, per la verità, già che c’era ha voluto fare le cose in grande. Peccato fosse “solo” un’amichevole e soprattutto che non ci fosse il mister, a godersi di persona i primi frutti dell’ottimo lavoro che sta facendo con il mio Daniele.
Mi sarebbe piaciuto, quel giorno, telefonare al dirigente di cui sopra, per prendermi una piccola rivincita e dirgli: “Hai visto? Per trasformare un brutto anatroccolo in un cigno non ci vuole poi tanto. Basta un allenatore capace, un po’ di pazienza e un clima di fiducia intorno, da parte dei compagni di squadra e delle altre famiglie”.
Forse non diventerà mai Pelé, ma sicuramente, grazie all’ODI Turro, adesso Daniele sta imparando a giocare a calcio.
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